31.03.2018 – Salutiamo la  “La Giornata Mondiale del Teatro 2018”, con l’ultimo messaggio. Questa giornata fu istituita a Parigi nel 1962 dall’International Theatre Institute (ITI) dell’UNESCO.  Ogni anno una  personalità della Cultura Mondiale propone riflessioni vive sul tema del Teatro e della Cultura della Pace.

Quest’anno, in occasione del 70° ANNIVERSARIO dell’ITI  i messaggi sono cinque, uno per ogni area geografica del mondo:
– Simon Mc Burney (Gran Bretagna – Europa)
– Sabina Berman (Messico – Americhe)
Were Were Liking (Costa d’Avorio – Africa)
Ram Gopal Bajaj (India – Asia e Pacifico)
– Maya Zbib (Libano – Paesi Arabi)

Il messaggio di Symon McBurney (Regno Unito), attore, scrittore, regista e co-fondatore del Théâtre de Complicité.

“A mezzo miglio dalla costa della Cirenaica, nel nord della Libia, si trova un vasto anfratto roccioso, di 80 metri di larghezza e 20 di altezza. Nel dialetto locale è chiamato Hauh Fteah. Nel 1951 l’analisi della datazione al carbonio ha mostrato un’occupazione umana ininterrotta da almeno 100.000 anni. Tra i reperti venne alla luce un flauto osseo databile tra i 40 e i 70.000 anni fa. Da ragazzo, sentita questa notizia, chiesi a mio padre: “Avevano musica?”
Mi sorrise: “Come tutte le comunità umane.”
Mio padre era uno studioso della preistoria nato in America. Il primo a scavare il sito di Hauh Fteah in Cirenaica.
Sono molto onorato e felice di essere il rappresentante europeo della Giornata Mondiale del Teatro di quest’anno.
Nel 1963, il mio predecessore, il grande Arthur Miller disse che la minaccia della guerra nucleare gravava pesantemente sul mondo: “Mi è stato chiesto di scrivere in un’epoca in cui la diplomazia e la politica hanno braccia terribilmente corte e deboli; la portata fragile, ma allo stesso tempo, lunga dell’arte deve sopportare il peso di tenere insieme la comunità umana “.
Il significato della parola Dramma deriva dal greco “dran” che significa “fare” … e la parola teatro ha origine dal greco “Theatron”, che letteralmente significa “luogo della visione”. Un luogo non solo dove guardiamo, ma dove vediamo, riceviamo, capiamo. 2400 anni fa Policleto il Giovane progettò il grande teatro di Epidauro. Poteva accogliere fino a 14.000 persone. L’acustica di questo spazio all’aperto è miracolosa. Un fiammifero acceso al centro della scena può essere sentito in tutti i 14.000 posti. Come in tutti i teatri greci, quando si guardavano gli attori, si vedeva anche il paesaggio oltre. Così non solo si combinavano più luoghi contemporaneamente, la comunità, il teatro e il mondo naturale, ma si riunivano anche tutti i tempi. Poiché lo spettacolo evocava i miti del passato nel tempo presente, si poteva guardare oltre il palco quello che sarebbe stato il proprio futuro ultimo. La natura.
Una delle rivelazioni più notevoli nella ricostruzione del Globe Theatre di Shakespeare a Londra è legata alla visione. Questa rivelazione riguarda la luce. Sia il palco che la platea sono illuminati allo stesso modo. Artisti e pubblico possono vedersi. Sempre. Ovunque si guardi ci sono le persone. E una delle conseguenze è che ci viene ricordato che i grandi soliloqui di Amleto o Macbeth, non erano solo meditazioni private, ma dibattiti pubblici.
Viviamo in un’epoca in cui è difficile vedere chiaramente. Siamo circondati da più finzioni che in qualsiasi altro momento della storia o della preistoria. Qualsiasi “fatto” può essere messo in discussione, qualsiasi aneddoto può presentarsi alla nostra attenzione come “verità”. Una finzione in particolare ci circonda continuamente. Quella che cerca di dividerci. Dalla verità. Gli uni dagli altri. E che dice che siamo separati. I popoli dalle persone. Le donne dagli uomini. Gli esseri umani dalla natura.
Ma proprio mentre viviamo in un periodo di divisione e frammentazione, viviamo anche in un tempo di immenso movimento. Più che in qualsiasi altro momento della storia, le persone sono in movimento; spesso in fuga; a piedi, a nuoto se necessario, migrando; in tutto il mondo. E questo è solo l’inizio. La risposta, come sappiamo, è stata quella di chiudere i confini. Di costruire muri. Di chiudersi. Di isolarsi. Viviamo in un ordine mondiale tirannico, in cui l’indifferenza è la moneta corrente e la speranza è una merce di contrabbando. Parte di questa tirannia consiste nel controllo non solo dello spazio, ma anche del tempo. Il tempo in cui viviamo evita il presente. Si concentra sul passato recente e sul futuro prossimo. Quello non ce l’ho. Comprerò questo. Ora l’ho comprato, ho bisogno di avere la prossima … cosa. Il passato profondo è cancellato. Il futuro è senza conseguenze.
Molti dicono che il teatro non cambierà o non può cambiare nulla di tutto questo. Ma il teatro non se ne andrà via. Perché il teatro è un luogo, sarei tentato di dire un rifugio. Dove le persone si incontrano e formano istantaneamente una comunità. Come abbiamo sempre fatto. Tutti i teatri hanno la misura delle prime comunità umane, da 50 a 14.000 anime. Da una carovana nomade a un terzo dell’antica Atene.
E poiché il teatro esiste solo nel presente, esso si oppone a questa disastrosa visione del tempo. Il presente è sempre l’oggetto del teatro. I suoi significati sono costruiti in un atto comunitario tra performer e pubblico. Non solo qui, ma ora. Senza l’atto del performer il pubblico non potrebbe credere. Senza la fiducia del pubblico, la performance non sarebbe completa. Ridiamo nello stesso momento. Siamo commossi. Rimaniamo senza fiato o restiamo scioccati nel silenzio. E in quel momento attraverso il dramma scopriamo una verità più profonda: che ciò che consideravamo la divisione più privata tra noi, il confine della nostra coscienza individuale, è anche senza frontiere. È qualcosa che noi condividiamo.
E non ci possono fermare. Ogni sera riappariremo. Ogni sera gli attori e il pubblico si troveranno assieme. E lo stesso dramma verrà rimesso in scena. Perché, come afferma lo scrittore John Berger: “Nella profonda natura del teatro c’è il senso del ritorno rituale”. Questo è il motivo per cui il teatro è sempre stato la forma d’arte dei diseredati. Diseredati che, a causa dello smantellamento del nostro mondo, noi tutti siamo. Ovunque ci siano artisti e spettatori, verranno messe in scena storie che non possono essere raccontate da nessun’altra parte: nei teatri d’opera e nei teatri delle grandi città, nei campi che ospitano migranti e rifugiati nel nord della Libia e in tutto il mondo. Saremo sempre uniti, insieme, in questa rievocazione.

E se fossimo a Epidauro potremmo guardare e vedere come condividiamo tutto questo con un paesaggio più ampio. Come siamo sempre parte della natura e non possiamo sfuggirle, proprio come non possiamo sfuggire al pianeta. Se fossimo al Globe, vedremmo come, domande apparentemente private, siano rivolte a tutti noi. E se dovessimo tenere in mano quel flauto cirenaico di 40.000 anni fa, capiremmo che il passato e il presente qui sono indivisibili, e che la catena della comunità umana non può mai essere spezzata dai tiranni e dai demagoghi.”

Symon McBurney

Traduzione di Roberta Quarta del Centro Italiano dell’International Theatre Institute.

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