19.09.2016 – In questi giorni nella bella Lucera si tiene il Festival della Letteratura Mediterranea. Una settimana intensa che vedrà alternarsi workshop e seminari che culmineranno nel gran finale, il festival vero e proprio, nei giorni 24 e 25 settembre.
L’evento quest’anno vanta grandi numeri, 19 ospiti, 12 eventi in 12 locations diverse e 35 ore di workshop.
Il tema dell’edizione 2016 è “Il segno ci fa umani”.
Lucera racchiude in questi giorni, con il Festival, l’essenza del Mediterraneo, trasformandosi in crocevia di culture, ognuna espressa mediante la forma artistica che gli è più congeniale. Ne deriva un interessante dialogo che tramite l’arte ci rammenta l’importanza della nostra umanità.
Così spiegano gli organizzatori del Festival della Letteratura Mediterranea la scelta del tema e gli interrogativi a cui si vorrebbe provare a dare una risposta.
Non è scontato che ci si riesca ma è importante provarci!
“Siamo sommersi di immagini, storie, video, format, opinioni, slogan, titoli. La verità è che abbiamo bisogno di rassicurazioni e definizioni, continue e brillanti; che facciano, ogni volta, al caso. Ma chi le produce? In nome di cosa? Dobbiamo sempre chiedercelo. Dovremmo chiederci se, nel guadagnare tutte queste visioni precise, spietate e spezzettate, non abbiamo forse perso quella generale che ci rende, tutti, nient’altro che uomini. Che se lo siamo, uomini, è quando ci mettiamo in discussione. Quando possiamo decodificare, tradurre, smontare, sintetizzare, arricchire, comprendere e scambiare esperienze e vissuti. Ma, prima ancora, siamo uomini perché in grado di creare. Questo i sistemi di potere lo sanno molto bene, e ci invitano a farlo meccanicamente, al solo scopo di guadagnarci sopra.
Ma noi, perché lo facciamo? Cosa ci spinge a scrivere, a dipingere, a danzare, a fotografare? Chi ce lo ordina? Cosa ci costringe? La capacità di produrre segni è ciò che accomuna gli uomini e li rende simili al di là delle lingue, delle etnie, delle religioni e delle appartenenze territoriali. Attraverso il mio segno io mi riconosco, ma ottengo mezzi per conoscere gli altri. Mi metto in ascolto. Nel manifesto abbiamo inserito la lettera “waw”, che significa “gancio”: è il segno di congiunzione tra elementi molteplici e anche opposti. E’ un segno per noi tutto da scoprire, che si porta dietro diversi significati.
Questa edizione è l’occasione per porre l’attenzione sul momento primordiale e puro, ancestrale, relativo al segno: un gesto semplice, istintivo, che però stiamo imparando a dare per scontato, oppure a caricare di roba inutile. Ognuno di noi ha bisogno di esprimere il suo mondo interiore, e può farlo attraverso vari linguaggi. Vogliamo interrogarci su quanto di questa naturalezza si sia persa a causa di congetture, di prefigurazioni, di preconcetti. L’uomo che scrive o che disegna non è l’artista, l’intellettuale, né il personaggio per qualche tempo famoso; è sempre e prima di tutto un uomo. Chi dice al bambino di scrivere con i pennarelli sul muro? Nessuno (anzi). Chi gli dice di disegnare sul vetro appannato? Nessuno. Picasso non dipingeva perché dipingere è carino, ma perché ne sentiva la necessità. Pasolini disse che scriveva perché, in fondo, l’aveva sempre fatto. L’opera artistica deve tornare a vivere nell’atto della necessità, non del momento della sua distribuzione al pubblico. Prima di chiederti perché lo stai facendo, lo fai. Come fa il bimbo. Perché è un mistero. Perché è assurdo e meraviglioso, e ti riempie (o ti svuota). La condizione di necessità si perde quando ci facciamo soffocare dalle sovrastrutture, quando siamo sedati, addormentati da questa giostra mediatica e smettiamo di conoscere e quindi di riconoscere i nostri e gli altrui segni. Quando ci allontaniamo dall’umano.
A cosa serve scrivere, o fare teatro? A niente, probabilmente. È ancora possibile farlo se dall’altra parte del Mediterraneo un bimbo rischia la vita sotto le bombe, se stanno torturando dei ragazzi, se una mamma incinta con la figlia molto piccola decide di scappare dalla propria terra sfidando la morte? La risposta è sì, sempre sì. Ancora di più. Ci attacchiamo a questo che pare inutile, eppure ci salva e ci rende uguali. A cosa serve, oggi, fare un Festival come il nostro? A poco o nulla, probabilmente. Ma noi abbiamo bisogno di farlo, perché crediamo nel potere della parola, del segno, sopra ogni atrocità, al di là di ogni difficoltà.”