13.01.2025 – Iniziamo questo nuovo anno con la bellezza del Teatro. Con  molta emozione il 2 gennaio abbiamo varcato le porte del Teatro Astràgali a Lecce dove siamo stati accolti dal direttore artistico il M°Fabio Tolledi che ha chiacchierato a lungo con noi, donandoci la sua ricchezza di una vita passata sui palcoscenici di tutto il mondo, anche quelli vicini alle zone di guerra.

Un racconto che vi invitiamo a gustare intensamente.

Fabio Tolledi, direttore artistico e regista di Astràgali Teatro, Presidente del Centro italiano dell’ITI-UNESCO e segretario del Theatre in Conflict Zones Network (TCZN) dell’ITI, scrittore, ricercatore, poeta e drammaturgo, e mi scuso se ho dimenticato qualche ruolo, ha all’attivo una florida e densa attività professionale e artistica. Qual è l’ambito di queste attività in cui si sente maggiormente rappresentato?

 In realtà c’è una continua connessione e contaminazione tra queste attività; c’è la visione evidentemente della pratica teatrale nel mondo, e specificamente nelle zone in conflitto; tutte investono la ricerca sociale e più precisamente la ricerca-azione per un’idea di teatro della comunità.

La mia esperienza nasce dalla scrittura poetica. Il teatro è una sorta di relazione viva, come forma di espressione che guarda chi incontra e da cui si muovono una serie di relazioni, di trasversalità; in questo senso si connette anche l’attività dell’International Theatre Institute dell’Unesco dove proprio nella sua Carta di nascita, come in quella dell’Organizzazione Unesco. si rinviene la necessità di considerare la cultura come elemento fondamentale per la costruzione di percorsi di pace, per la conoscenza delle diversità culturali che in tutto il mondo abbiamo.

Qual è attualmente il più importante progetto in fase di realizzazione o realizzato?

Nell’ambito della scelta di Astràgali Teatro di dedicarci alla progettazione internazionale, stanno per avviarsi due progetti finanziati dalla Cultural Agency dell’UE: uno è il NAT (Natural Art and Theatre).

Riguarda il lavoro site specific delle realizzazioni teatrali in cui anche le nuove tecnologie vengono investite però di una tensione, diciamo, umanistica. Lavoreremo sviluppando ancora una volta delle tematiche legate alla questione del conflitto, utilizzando dei lavori di Marguerite Duras, quali L’amante, Il dolore e  i Quaderni della guerra che sono un punto di partenza e che comprendono un altro aspetto fortemente caratterizzante, il mio lavoro e il lavoro di Astràgali, da quando lo dirigo che ha sempre avuto al centro la figura femminile.

Ciò ancora oggi segna una prospettiva molto importante perché in questo contesto di conflitto e di guerra è per noi evidente che la questione femminile rappresenta il vero punto di svolta, di snodo, di possibilità di resistenza e trasformazione dei rapporti sociali  in ogni luogo. Da tre anni lavoriamo in Tunisia verso il confine con l’Algeria con un gruppo auto-organizzato di donne vittime di violenza e abbiamo trovato lì un avanzamento del discorso molto importante e interessante.  Del resto lavorare nelle zone di conflitto ti induce a essere capace di mettere in crisi i luoghi comuni per cercare, invece, di osservare quali sono le dinamiche reali.

Il secondo progetto, triennale,  molto importante che si chiama ABC, riguarderà una trilogia a cui torniamo con grande gioia e interesse, una trilogia da Aristofane.

La commedia è molto più complessa tecnicamente. Ancora una volta ci sarà al centro la figura femminile con Le donne in Parlamento, La festa delle donne e Pace:  l’idea è di tematizzare un elemento decisivo che è il superamento della necessità della guerra.

In questo momento l’aspetto più preoccupante non sono le guerre in sé ma è la cultura che fonda la necessità della guerra. In ciò la prospettiva del pensiero femminile è una prospettiva decisiva così come anche il lavoro con le partnership dei progetti internazionali. All’interno delle relazioni significa comprendere anche i bisogni che nelle partnership nascono.

Nel caso di Nat, del primo progetto, la Georgia è partner del progetto e in questo momento sono di ritorno dal nuovo teatro nazionale di Tbilisi dove sono stato quasi un mese  per preparare il mio Medea, desir. Lì vi è una protesta in atto civilissima, non violenta, importantissima che non trova, però, rappresentanza politica.

Come è nato e si è sviluppato l’interesse al Teatro in un dialogo internazionale con i paesi europei e non solo?

Diciamo che è stato un momento preciso, di grande difficoltà, come accade ai teatri giustamente, in cui spesso ci veniva fatto notare dalle situazioni locali, territoriali o regionali che eravamo troppo di nicchia. Al di là del significato di nicchia, la questione era che diventava molto difficile pensare che dovevamo noi adeguarci all’idea di teatro e di pubblico che avevano le istituzioni; così ci siamo detti di guardare un pochino oltre per cercare di garantire l’assoluta nostra indipendenza.

Questa scelta, però, ha anche motivi più profondi, legati all’incontro con Franco Cassano che ha seguito spesso il nostro lavoro e il nostro percorso.

In realtà Cassano ci ha aiutato a pensare che tu sei periferia: dipende da qual è il mondo che vedi. Allora la domanda: ma che cosa fanno a teatro, cosa scrivono in Albania, in Grecia, nei Balcani? E’ chiaro che sono  periferia laddove mi sento ai margini di qualcosa, ma sono ai margini perché non vedo quello che mi sta attorno realmente. Questa è stata una necessità più profonda, più importante del guardare oltre.

L’incontro con la Grecia, ad esempio, non è avvenuta solo perché c’erano gli Interreg, ma si inseriva in una  domanda vera e tale continua ad essere.

Poi, per quattro anni mi è capitato di fare ricerca all’Università di Atene su un progetto specifico che era tragedia e commedia nell’arte contemporanea e ha significato anche la possibilità di confrontarsi, di capire che cosa è il teatro del mondo arabo mediterraneo, che cosa significa esplorarlo con rigore e anche con umiltà.

In Siria abbiamo scoperto che vi è una tradizione profondissima e una richiesta e un bisogno di teatro, di cultura; come la carta dell’UNESCO dice: è la cultura che supera il conflitto, ma il conflitto ha bisogno della cultura.

Quando abbiamo iniziato a lavorare in Africa, in Costa d’Avorio, in Ghana, in Burkina, abbiamo cominciato anche ad attraversare elementi profondi, come ad esempio i miti.

In Burkina siamo arrivati a lavorare sulle sirene, su Mami Wada, che è sempre una figura femminile, su questo non ho molta fantasia: però, questa l’avevamo scoperta lavorando in Brasile, a San Paolo, dove una delle figure degli Orisha più importanti è proprio questa sirena, figura che è legata alla migrazione.

E l’idea è che le persone che venivano deportate nella schiavitù (sei milioni di persone sono state deportate dalle coste occidentali in Brasile), quando affondavano le navi, non venivano considerate morte, ma vivevano eternamente sottacqua con delle figure femminili, che, appunto, le accoglievano.

Allora quel mito, il mito delle sirene, rispetto anche alla nostra tradizione greco-ebraica, diventa una possibilità da attraversare in maniera profonda, non solamente come civiltà superiore, ma come civiltà dialogante: cioè, la civiltà  è superiore se dialoga, se non dialoga non esiste proprio!

Noi non siamo circuitati dal Teatro Pubblico Pugliese e da quando io dirigo il Teatro Astràgali, dal 1992, siamo presenti in istituzioni, in festival importanti in tutto il mondo, solo perché continuiamo a scegliere che cosa fare, come farlo e dove farlo, non ce lo inventiamo come necessità.

Adesso stiamo cercando di riprendere, dopo l’interruzione causa covid, a lavorare con la Cina; lavorare con la Cina significa lavorare con una tradizione teatrale importantissima e significa confrontarsi anche con livelli che sono inimmaginabili per noi: ad esempio, quando sono stato all’Accademia di Teatro di Shanghai la direttrice mi aveva detto che vi è una palazzina dove stanno gli studenti che lavorano tutti i giorni dal lunedì al sabato dalle otto di mattina alle otto di sera e la domenica lavorano da soli dalle otto alle venti; anche la sera è aperto per provare, ecc.

Osservando poi la tradizione teatrale in Cina,  quella ad es. del teatro delle ombre in Turchia, in Grecia, a Cipro ecc., dove è una delle forme teatrali più importanti, ecco allora la domanda che mi veniva: qual è la nostra tradizione teatrale più importante in questo momento?

E’ una domanda politicamente molto rilevante perché è evidente che il televisivo domina in maniera devastante e il mestiere non ha tempo e modo per acquisire gli strumenti necessari; è un lavoro artigianale lungo, faticoso, costante, cosa ben diversa dalla proposta dei talent show che esistono per l’immediata popolarità e successo, ma non ti consentono di costruire un mestiere e poi ti bruciano.

La domanda che cos’è la tradizione diventa una domanda davvero molto interessante: l’UNESCO ha stabilito già nel 2010 che ogni anno si perdono dalle 100 alle 200 forme originali di arti performative; l’UNESCO ha fatto un censimento di circa 4.000 forme d’arte performativa presenti nel mondo, ognuna differente dall’altra, e noi viviamo questa perdita così come avviene per la perdita delle lingue; allora è evidente che la domanda che cos’è la tradizione diventa una domanda molto più avanzata di quello che può apparire.

In questo tempo di grande crisi che sta vivendo l’umanità a livello mondiale se e in che modo il teatro può contribuire ad una riedificazione?

Io partirei anche qui da elementi molto concreti.

Tre anni fa siamo stati ospitati dal Teatro Nazionale di Baghdad perché riapriva il teatro dopo i bombardamenti del 2003.

Quel teatro era stato bombardato, ma perché bombardano un teatro? Cioè se fosse inutile non verrebbe bombardato!

Altra cosa decisiva è che lavorando nei Balcani, mi è capitato  spesso di sentire nella ex Jugoslavia molti racconti di persone che fanno teatro e dicono che durante la guerra non hanno smesso  di frequentare il teatro, nonostante i bombardamenti in corso, perché, per loro  è meglio morire in un teatro che in un rifugio antiaereo!

E ancora, quando i nostri amici fraterni del Fragment Theater di Genin ci dicono che con le ruspe hanno abbattuto il deposito, significa che il teatro serve.

L’esperienza di Augusto Boal, che è stato presidente anche dell’ITI,  ci dice che appunto il teatro si può fare, si deve fare dovunque, non c’è bisogno delle poltrone, dei riscaldamenti, degli impianti luminosi ipertecnologici; basta sedersi intorno ad un cerchio  dove c’è una persona che dice una cosa, che canta, che suona, che danza e una persona che guarda.

Come diceva già Peter Brook, lì già c’è teatro!

Per questo ha attecchito tanto l’esperienza di Augusto Boal: diceva questo è teatro ed è necessario, è fondamentale soprattutto in un tempo di guerra in cui appunto il conflitto è nutrito da mancanza di dialogo, di non conoscenza dell’altro.

La tradizione teatrale è sempre stata piena di persone di ogni nazionalità, di ogni cultura.

 Qual è il vostro rapporto con la Puglia e quanto il nostro Salento ha influito sul percorso artistico e in genere su tutta la produzione di Tolledi e Astràgali Teatro in Italia e all’Estero.

Il logo di Astràgali già dice molto perché riporta un dettaglio del mosaico della cattedrale di Otranto: c’è una testa con in bocca una pianta e sopra c’è una scacchiera.

In realtà quello appunto è legato al discorso di cui ho parlato prima circa la relazione con Franco Cassano e col pensiero meridiano.

La scacchiera è il quadrato magico di chiarissima derivazione araba e si trova all’interno del mosaico; è stato fatto lì in quanto nella vicina Casole c’era il Monastero di San Nicola  che era stato una delle prime università in territorio europeo ma, in realtà, era  luogo della cultura dell’universo: vi giungevano intellettuali  dal mondo arabo, dal mondo ebraico, dal mondo bizantino, dal mondo latino romano.

Cioè significa fare i conti con quella stessa prospettiva di cui abbiamo parlato prima, ossia guardare al fatto che questo luogo era importante perché la Messapia è la terra tra due mari e la terra tra due mari è dialogante.

Questa specificità si scontra, invece, con l’appiattimento culturale che la lingua dell’impero porta con sé.

 Allora questa pluralità delle lingue, in realtà, è un elemento decisivo che nasce anche da questa condizione territoriale: siamo un territorio segnato profondamente dalle migrazioni. La Puglia quindi deve giocarsela in maniera intelligente e importante questa opportunità.

Rimanendo in ambito più strettamente legato all’arte teatrale qual è il/i maestro/i la cui metodologia ha ispirato la sua  produzione artistica e formativa?

 Chiaramente siamo fatti di incontri che facciamo e quindi è evidente che, in un certo senso, diciamo che ce ne sono tanti. Poi chiaramente non posso distinguere l’incontro teatrale da quello poetico o da quello della ricerca scientifica perché si intrecciano tanto tra loro.

L’incontro con Grotowski nell’86 e poi il lavoro legato alla questione del teatro laboratorio è stata un’esperienza importante.

Chiaramente,  dal punto di vista scientifico, l’incontro con George Lapassade, il lavoro assieme a Piero Fumarola per tanti anni, sono tutte questioni che sono entrate dentro una pratica, anche militante fra l’altro, perché c’è anche il dato politico che va conservato in maniera decisiva: il teatro è un atto politico e la poesia è un atto politico. Poi le esperienze con Antonio Verri rispetto alla questione della scrittura.

In tutti i casi, tranne Grotowski, per la sua lontananza, le persone incontrate sono tutte persone divenute anche amiche, così come è stato per  l’amicizia profonda con Roberto Tessari.

Ci sono passaggi che segnano qualche aspetto in maniera decisiva e che poi contribuiscono alla costruzione di una unicità.

Una cosa che mi fa sorridere è pensare che molto del teatro di ricerca internazionale non è stato mai capace di lavorare sulla commedia, invece è una cosa su cui penso si debba fare molto ancora.

C’è la necessità di un senso profondo, legato all’esperienza artistica. L’esperienza artistica ha senso se ha una profonda ragion d’essere.

Non pretendiamo che il nostro teatro sia il più bello e il più importante di questa terra. Ha un senso profondo, però, e questo non sempre accade.

Come è successo che le è stato chiesto di accompagnare il ritorno di Medea nella Colchide?

 È successo perché prima di tutto, tra virgolette, un po’ è stato commissionato il lavoro di Medea già nella sua nascita, ma ha avuto  una storia abbastanza travagliata e complessa.

E’ nato, come committenza, dal Festival di Costanza in Romania, luogo che si identifica con l’antica Tomis e dove Medea approda fuggendo dalla Colchide, facendo a pezzi il corpo del fratello, un posto di una bellezza feroce.

Il cambio del direttore artistico del teatro ha però rinviato il lavoro all’anno successivo. Ho fatto un altro sopralluogo. In pratica Costanza è un porto molto grande, molto importante. Ma l’antico porto,  era il più importante porto delle colonie greco-romane, perché arrivavano i commercianti con le stoffe, le spezie dall’Oriente per scendere poi verso il Mediterraneo.

Questo luogo nel IX secolo, essendosi ritirate le acque, è rimasto disabitato: è il delta del Danubio. Avevo avuto l’idea di fare lì la scena finale: tutte le donne stavano su una chiatta che si allontanava e se ne andava e lasciava gli spettatori a riva.

Questa era la prima idea che però poi non è stata fatta lì, ma in altro luogo.

Poi è arrivato il covid quando avevo iniziato a lavorare con ventisei attori e attrici e con un coro di dodici giovani donne. La compagnia era già tutta internazionale. Col covid, invece, abbiamo avuto quattro attori di cui tre Salentini.

Ho cambiato così anche  il titolo che prima era Mater Medea perché avevamo trovato una cosa molto interessante: l’immagine di un affresco pompeiano dal titolo Medea che guarda i figli giocare ai dadi, o meglio agli astragali. Una bella provocazione!

Nella scrittura del testo io ho seguito la forma diciamo dello Stabat Mater di Pergolesi, sono partito da quello come canone sonoro; la scelta era però legata ad un aspetto molto preciso e che riguarda la  struttura della tragedia.

La tragedia classica per noi, per come la conosciamo, è un fenomeno profondamente letterario, filologico e quindi, la traduzione, necessariamente è un’operazione interpretativa forte, non sempre facile da comprendere.

Ad esempio nella tradizione mediterranea il canto funebre, secondo alcuni studiosi, si basa sul metro eschileo: questo per dire che abbiamo la possibilità di comprendere l’elemento tragico partendo non dalla traduzione testuale che è molto complessa da ricostruire, ma dalla questione sonora, musicale.

Questa cosa mi aveva indotto a cominciare a cercare in tutti i luoghi dove andavamo nel Mediterraneo canti funebri. Mentre ero a Cipro per altro lavoro, ho continuato la ricerca del lamento funebre: lì ci hanno fatto sentire un canto che, come situazione,  ho riscontrato essere molto vicino  a quella di Maria con il corpo del Figlio morto, come nel canto della mater dolorosa.

Questa sovrapposizione, partendo naturalmente da “Medea. Voci ” di Christa Wolf, rimetteva al centro una ridefinizione del mito di Medea che la vedeva vittima di una macchinazione che la faceva colpevole. In realtà, questo Pasolini l’aveva già individuato.

Poi da qualche anno abbiamo iniziato a lavorare con la Georgia e abbiamo cercato un po’ di chiudere il cerchio rispetto a questo percorso di Medea. La Georgia è un luogo molto bello.

Sono stato invitato lì perché nel 2018 ero stato a Tbilisi, facendo parte del Comitato scientifico del Gurdjieff Institute. Diciamo rispetto al luogo di partenza di Medea qui, secondo me, c’era la possibilità di costruire una cosa che spero di poter ultimare all’inizio di marzo, che ha avuto un risvolto molto interessante e importante.

Esiste il luogo comune di Medea: la donna che uccide i suoi figli, l’accecamento della gelosia, ma esistono comunque decine di interpretazioni del mito di Medea che non considerano che lei abbia ucciso i figli; ciò non è una cosa così scontata ed è stato molto interessante da affrontare a Tbilisi dove ho avuto modo di lavorare con quattro attrici molto grandi di età che hanno fatto un tappeto sonoro di canti polifonici molto belli.

Questo tappeto sonoro che caratterizza Medea, Désir, ha consentito a me di costruire un percorso che ritengo sia molto importante in questo momento in quel luogo: quello di liberarsi dall’odio.  La violenza, che è un termine fondamentale per comprendere la dinamica del conflitto, sta dentro di noi. Bisogna essere capaci di riconoscere la propria violenza per liberarsi dalla violenza.

Questo non è semplice. Nel nuovo Antigone, che il 16 gennaio prossimo ripresentiamo qua a Lecce, partiamo dal testo di Maria Zambrano: è un testo per me molto interessante questo perché è un lavoro sulla fratellanza e sulla sorellanza; la parola con cui il verso del testo La tomba di Antigone finisce è: amore, amore, terra promessa.

Occorre comprendere che l’amore è un punto d’arrivo non è qualcosa che ci è dato naturalmente e quindi in questo momento lavorare lì è importante anche se non è così confortevole. Però questo ha senso.

Ha un sogno nel cassetto in ambito teatrale che sta perseguendo o da cui viene perseguitato?

Io ho sempre avuto un desiderio di avere un teatro sopra il mare, ma questo penso che comincia a essere un po’ più difficile da realizzare.

Però i desideri sono fondamentali, quindi chiaramente quello che mi auguro è che le persone che fanno teatro possano farlo in tutti i luoghi in cui scelgono di vivere. Si può e si deve lavorare su questo!

Grazie Maestro Tolledi per queste suggestioni che ci ha donato, da interiorizzare e sui cui riflettere, in quanto ci danno davvero la dimensione del ruolo e dell’importanza del Teatro in tutti i contesti sociali.

Biografia breve

Fabio Tolledi è regista, poeta, direttore artistico di Astràgali Teatro, con cui ha realizzato spettacoli teatrali e residenze artistiche in circa 40 paesi in tutto il mondo. Per la sua attività finalizzata al dialogo interculturale e alla promozione di pratiche di pace nel Mediterraneo e nelle aree di conflitto è stato eletto nel 2014 Coordinatore del Theatre in Conflict Zones Network dell’International Theatre Institute (ITI). È presidente dell’ITI Italia e ha all’attivo pubblicazioni e interventi su riviste nazionali e internazionali di teatro e sociologia.

https://www.astragali.it/

Ringraziamo la giornalista Giovanna Ciracì per aver coordinato l’incontro con il M° Tolledi e per l’accoglienza ricevuta presso la sede di Astràgali a Lecce. Il Teatro è anche questo, un abbraccio di stima, amicizia e passioni comuni.

Emilia Brescia