30.03.2015 – A distanza di alcuni giorni dalla prima nazionale di Veli ultimo lavoro di Fabio Tolledi e del suo Astragali teatro, andato in scena al Teatro Abeliano di Bari, rimane ancora nella mente il bagliore del bianco della scena dove il tutto si sviluppa. L’olfatto, invece, trasporta indietro negli anni al profumo naturale e fresco del bucato di un tempo. Queste sono le prime sensazioni risvegliate! Il lavoro ruota tutto intorno alla vista ed all’effetto ottico determinato dalla miopia:tutto ben visibile e illuminato ad una distanza accorciata o annullata rispetto a ciò che è esterno all’occhio e viceversa e cioè invisibile tutto ciò che è lontano. In realtà, attraverso tre percorsi per immagini e parole poetiche (di Fabio Tolledi) le tre attrici rappresentano la metafora della miopia.
Così come la miopia impedisce di vedere oltre e bene ciò che dall’esterno si proietta all’occhio, così a questa vista sensuale si correla quella mentale e culturale per pensare ad una libertà di essere indipendentemente da come si è visti, da come si appare agli occhi delle persone che guardano; da qui l’interrogativo esistenziale: il velo dell’anima appartiene a chi lo possiede o è stato posto dal mondo esterno? Il velo, però, compie l’importante operazione maieutica di generare la presenza dall’assenza, ed altri interrogativi: i non vedenti sanno di vedere e i vedenti sanno di vedere? E cosa vedono?Tali riflessioni sono ricompresi nel progetto filosofico alla base degli studi elaborati da Hélène Cixous, docente di Letterature Comparate e Studi femminili all’Università di Paris VIII, nonché drammaturga da alcuni decenni del Théatre du Soleil, dove, sia in veli, scritto con Derida, che in altri scritti, solo suoi, sviluppa la contrapposizione tra ciò che è culturale e il sostrato materiale, comunque presente, relativamente allo stesso oggetto, corpo, cogliendo la profonda crisi in cui è entrata la soggettività in epoca contemporanea. Il contemporaneo non riesce ad individuare ciò che dovrebbe essere; non riesce a cogliere il neutro (e chissà se riuscirà mai!) né tantomeno a realizzarlo, intrappolato in concetti che si presentano come qualcosa di già definito e che escludono il concetto che mai l’uno/a è senza l’altro/a; per semplificare l’idea è un po’ come accade per i libri che si leggono l’un l’altro, che non sono mai l’uno senza l’altro.
Con l’eliminazione del velo si elimina la barriera nel vedere tutto ciò che non si è potuto vedere; così l’approccio allo studio del significato del maschile e del femminile (o gender studies per rimanere ancorati ad una scottante problematica attuale) è presto fatto con l’arma teorica della decostruzione. Sperando che effettivamente, come viene declamato, da una delle tre attrici sia solo l’AMARE il verbo che induce a fare. Rappresentare le metafore di questi concetti filosofici non deve essere stato affatto semplice per il sociologo, scrittore/poeta e regista Fabio Tolledi che sicuramente saprà anche che trattasi di lavoro, parimenti, di non immediata e facile comunicazione, pur potendo consentire apprezzamenti sulla composizione poetica del testo, ciò che più e meglio ha prevalso rispetto alle azioni teatrali, sia pure svelata o tradita da chiare note salentine. Lo spettacolo ha visto la collaborazione dell’UNESCO attraverso l’International Theatre Insitute. Interessante e pregevole studio correlato alla rappresentazione di espressione di concetti filosofici resi in poesia. Da seguire con molta attenzione con l’ausilio della lettura del testo poetico dell’autore Tolledi di cui personalmente ne auspico a breve la pubblicazione.
Emilia Brescia